Fa parte della nostra memoria anche quella parte del cervello che non deve essere
addestrata, che non ha bisogno di studiare e di apprendere, ma che esiste e si
sviluppa solo per un incondizionato rispetto degli esempi ricevuti,
dell'ambiente che frequentiamo, dell'esempio e dell'emulazione del comportamento del prossimo e dei genitori.
Un
qualcosa che ognuno ha dentro di sé, una innata conoscenza. Che
ne so, diciamo che qualcuno ha uno spirito di orientamento migliore
rispetto a qualcun altro, chiamiamolo istinto, chiamiamolo facoltà
di riconoscere da alcuni elementi - spesso irriconoscibili per altri - da che parte sorge il sole o qual è la strada più facile
per tornare a casa. Ecco proprio di questi istinti, di questi
naturali modi di essere, la natura dell'uomo sta abituandosi a farne
a meno.
Intendo
dire che fino a pochissimi anni fa la qualità della vita – direi
quasi la capacità di sopravvivere – era affidata a certi
comportamenti che permettevano di vivere in sincronia con la natura e
di apprezzarne, goderne e usufruire dei suoi frutti, di convivere e vivere meglio.
Non posso certo lamentarmi del fatto che la vita - per gran parte degli esseri umani - sia diventata molto più semplice, comoda ed agevole di quanto sia
mai stata negli ultimi millenni, però dobbiamo onestamente
riconoscere che pochissimi di noi riuscirebbero a mettere in tavola
un buon piatto di insalata, se non dopo averla comprata in un
supermercato – i più primitivi di noi potrebbero comprarla da un
ortolano – e veramente pochi avrebbero l'ardire di cercare qualcosa
di commestibile tra le tante erbe sconosciute che nascono spontanee nei prati. Oltretutto non ci sarebbe il tempo, quindi perché perder una parte del nostro prezioso tempo per imparare nozioni che sono superflue in questo sistema sociale?
Infatti ormai il nome
di un vegetale non ci evoca più la sua forma e non ci permette di
riconoscerlo, per mancanza di esperienza e, soprattutto per mancanza di fiducia in noi stessi –
e se mi sbagliassi? Siamo abituati a riconoscere le cose dalle
etichette, insomma, ci fidiamo più di quello che sentiamo dirci da fonti che si qualificano attendibili o che leggiamo su un qualsiasi pagina di internet, piuttosto che fidarci dei nostri sopiti istinti, delle nostre blande esperienze o di approssimative conoscenze dell'ambiente in cui viviamo.
Certo
motivi per non mangiare le erbe dei prati ne abbiamo abbastanza, a
cominciare dall'inquinamento dell'aria e delle falde acquifere, dei
pesticidi e dei rifiuti tossici interrati un po' ovunque. Ma il motivo
principale per cui non siamo più abituati a sceglierci le erbe, i
vegetali e le radici che crescono, come natura vuole, in terra è che
sono veramente pochi, tra di noi, quelli che riescono ancora a riconoscere un'erba
commestibile da un'erba dannosa per la nostra salute.
A
parte il fatto che poche erbe sono veramente dannose, quello che
trovo estremamente preoccupante è l'incapacità - che a volte ostentiamo
come un vanto – di riconoscere che questa nostra ignoranza sia un
vero limite, che deriva da una scarsa frequentazione dei luoghi dove
la natura non sia ancora stata invasa e contaminata dalle esigenze
dell'uomo e del progresso.
Luoghi
che avrebbero dovuto insegnare a conoscere e riconoscere quel
qualcosa di cui noi oggi – per abitudine, comodità e disponibilità
di mezzi – nemmeno sentiamo più la mancanza. Quelle poche volte
che facciamo una passeggiata fuori porta e ci allontaniamo dal
traffico, parcheggiamo la macchina in qualche parcheggio ai lati di
un bosco e, di solito, paghiamo un biglietto di entrata, come al cinema. Poi cominciamo la
nostra avventura nella natura: i sentieri sono normalmente tracciati
e segnalati da cartelli con percorsi consigliati, con il tempo di
percorrenza, il livello di difficoltà, che tipo di scarpe metterci ..... così non rischiamo di poterci perdere o di dover
ricorrere al nostro navigatore satellitare. Quell'affare che ci segue ( o che ci
controlla?) in qualsiasi momento ma con cui viviamo più sicuri di essere sempre in contatto con i nostri amici e di contenere ogni rischio, così ci sentiamo più forti, almeno
finché non perdiamo il telefonino.
La
memoria, i ricordi, l'esperienza del vissuto ormai ci sembrano
qualcosa di “antico”, di polveroso, qualcosa che ci lega ad un
passato che confondiamo con il precario, l'inaffidabile, il
“vecchio”.
Ma vecchio inteso con un senso dispregiativo, cioè incapace di aggiornarsi e incapace di apprezzare quello che il “progresso e la tecnologia” ci offrono ogni giorno in modo sempre più
sofisticato, sempre più accessibile, a portata di mano, già pensato per noi, da un sistema capace di prevedere e di guidare i nostri
desiderata: quei pensieri tanto reconditi che, se non ce li facesse notare qualcuno, nemmeno avremmo mai conosciuto.
Ecco
forse la memoria sta passando di moda per il fatto che ci fidiamo
meno della nostra cultura, della nostra mente - forse per
convenienza, per risparmiare tempo, per indolenza o per poter citare
delle fonti che confermano e rafforzano quello che stiamo pensando o
dicendo. Forse
è proprio questa insicurezza, questo sentirsi nudi in un mondo
troppo grande per poterne conoscere abbastanza, che la nostra
ignoranza pressoché COMPLETA in molte materie di cui – per vivere
– non è più necessario sapere come funzionano e se funzionano bene.
Così succede che qualsiasi idea che si propone come differente, come nuova, viene sistematicamente considerata migliore di quella che vorrebbe rimpiazzare, perché - non sapendo - si crede che potrebbe aiutare a crescere, a migliorare, a realizzare un processo più rapido, più efficiente, meno faticoso e coinvolgente per l'uomo. Anche se non si è ancora avvertito - per insensibilità? - un vero bisogno di cambiare. In effetti il nuovo è, per definizione, una “evoluzione del passato” e deve, o dovrebbe, essere un miglioramento di quanto già esiste.
Così succede che qualsiasi idea che si propone come differente, come nuova, viene sistematicamente considerata migliore di quella che vorrebbe rimpiazzare, perché - non sapendo - si crede che potrebbe aiutare a crescere, a migliorare, a realizzare un processo più rapido, più efficiente, meno faticoso e coinvolgente per l'uomo. Anche se non si è ancora avvertito - per insensibilità? - un vero bisogno di cambiare. In effetti il nuovo è, per definizione, una “evoluzione del passato” e deve, o dovrebbe, essere un miglioramento di quanto già esiste.
È
chiaro che il termine progresso è una definizione positiva,
migliorativa, che permette di godere di tutto quanto è esistito
prima di noi e di mettere, sopra alla glassa di una torta già cucinata,
una bella ciliegina rossa.
Il dubbio che sorge a volte è se la bella ciliegina rossa sia sempre compatibile con il sapore e i colori della torta che abbiamo sempre mangiato con piacere o se sia troppo appariscente per quella torta, che forse non ne aveva nessun bisogno per sembrare più bella e forse il nuovo gusto della ciliegina stona con il sapore della ricetta originale.
Il dubbio che sorge a volte è se la bella ciliegina rossa sia sempre compatibile con il sapore e i colori della torta che abbiamo sempre mangiato con piacere o se sia troppo appariscente per quella torta, che forse non ne aveva nessun bisogno per sembrare più bella e forse il nuovo gusto della ciliegina stona con il sapore della ricetta originale.
Esiste
il rischio che, col passare del tempo, si parli sempre più della nuova bella ciliegina e che il tanto parlarne ci faccia dimenticare
il sapore antico della buona torta che ora con le ciliegine è
decorata più riccamente, più sfarzosamente, è artificiosamente truccata meglio. Anzi se qualcuno sotto le belle ciliegine ci mettesse un'altra torta della stessa forma, ma con un sapore differente, forse nessuno
se ne accorgerebbe, tanto è ammaliante la bella ciliegina che
calamita su di sé le attenzioni di tutti.
Anche le attenzioni di chi il sapore antico della torta - quella buona anche senza le ciliegine - non l'ha mai conosciuto e che non riconosce la differenza.
Anche le attenzioni di chi il sapore antico della torta - quella buona anche senza le ciliegine - non l'ha mai conosciuto e che non riconosce la differenza.
E
si continua a mangiare la torta con le belle ciliegine, perché è facile lasciarsi sedurre dalle apparenze e .... le abitudini cambiano, senza che ce ne accorgiamo: La
nostra percezione del tempo - quella del momento distratto che viviamo - ci aiuta a non percepire i piccoli cambiamenti, quasi impercettibili e veloci che avvengono continuamente sotto i nostri occhi. Ci siamo dimenticati che sapore aveva la torta, quando ancora sopra non aveva le ciliegine.
Tanto tempo fa
A scuola c'era una piccola biblioteca, dove tutti i ragazzini potevano lasciare un libro che avevano già letto e prenderne in prestito uno nuovo, così i titoli cambiavano sempre e ogni settimana c'era modo di leggerne uno nuovo. Forse il termine biblioteca è esagerato per una piccola iniziativa di qualche professore che aveva trovato il modo di far sentire importanti dei ragazzini che si erano presi la responsabilità di scegliere quali libri portare a scuola e che si erano impegnati a leggerli senza sporcarli e senza fare troppe orecchie sulle pagine. Perchè i libri sono importanti e meritano rispetto, anche quando dopo averli letti non ci sono piaciuti.
Avrò avuto undici, dodici anni quando mi capitò di leggere "I Tre Moschettieri". Per un ragazzino degli anni sessanta - quando la televisione era in bianco e nero e le trasmissioni cominciavano alle cinque del pomeriggio con la TV dei ragazzi che durava un'ora e poi si dovevano fare i compiti - i libri di cappa e spada o quelli dei pirati o i racconti sul far west, erano un'avventura della fantasia. Leggendo quelle pagine si usciva del mondo reale e ci si immergeva completamente in un'altra epoca, ci si immedesimava con quei personaggi che parlavano di onore e di rispetto con un re o con un capobanda che aveva appena ammazzato con le sue mani quello che era stato il cattivo di turno.
Ma quel libro fu importante per me, non solo per come raccontava i colori di una epopea lontana e affascinante ma perché alla fine del libro, la mia curiosità non era stata appagata ma stimolata, anzi mi aveva fatto sperare che le pagine non finissero mai e ogni storia narrata finiva come un feuilleton a cui mancava la parola "continua la settimana prossima". Ma quando riportai a malincuore il libro a scuola scoprii che la mia sensazione non era dovuta al fatto che non avessi compreso qualche parte della storia o che la mia fantasia non si fosse spinta fin dove doveva arrivare. No, anche l'autore del libro aveva compreso che un libro solo, per quella storia non bastava. Trovai dello stesso autore un altro libro, con la copertina molto simile e che si chiamava "Vent'anni dopo".
Non mi ricordo se lessi il secondo libro con lo stesso entusiasmo del primo e nemmeno ricordo bene quali sono le storie raccontate prima e quelle che venivano dopo, ma quello che mi colpì maggiormente fu il valore che io a dodici anni davo al tempo. Vent'anni per me erano tanti, erano una generazione, era come aprire una finestra sul futuro, e il futuro - a quell'età - è lontano, arriverà quando si sarà diventati grandi e il tempo non passa, e si aspetta con ansia di potersi mettere in gioco, sicuri che il mondo per noi sarà migliore di quello che vediamo intorno a noi, perché noi siamo di più. Noi siamo più istruiti, capiamo prima dei nostri genitori, siamo giovani e abbiamo la forza per fare quelle cose che i nostri eroi di carta riescono a fare con tanta normalità.
Poi improvvisamente il tempo comincia a correre e non ci si accorge che non siamo riusciti a fare tante cose, perché eravamo troppo piccoli, perché erano cose da grandi, perché non eravamo pronti o perché semplicemente non avevamo abbastanza soldi e nemmeno gli amici e la famiglia giusta per diventare protagonisti in un mondo che avevano solo sognato.
Oggi vent'anni però bastano per entrare in un'altra epoca.
Avrò avuto undici, dodici anni quando mi capitò di leggere "I Tre Moschettieri". Per un ragazzino degli anni sessanta - quando la televisione era in bianco e nero e le trasmissioni cominciavano alle cinque del pomeriggio con la TV dei ragazzi che durava un'ora e poi si dovevano fare i compiti - i libri di cappa e spada o quelli dei pirati o i racconti sul far west, erano un'avventura della fantasia. Leggendo quelle pagine si usciva del mondo reale e ci si immergeva completamente in un'altra epoca, ci si immedesimava con quei personaggi che parlavano di onore e di rispetto con un re o con un capobanda che aveva appena ammazzato con le sue mani quello che era stato il cattivo di turno.
Ma quel libro fu importante per me, non solo per come raccontava i colori di una epopea lontana e affascinante ma perché alla fine del libro, la mia curiosità non era stata appagata ma stimolata, anzi mi aveva fatto sperare che le pagine non finissero mai e ogni storia narrata finiva come un feuilleton a cui mancava la parola "continua la settimana prossima". Ma quando riportai a malincuore il libro a scuola scoprii che la mia sensazione non era dovuta al fatto che non avessi compreso qualche parte della storia o che la mia fantasia non si fosse spinta fin dove doveva arrivare. No, anche l'autore del libro aveva compreso che un libro solo, per quella storia non bastava. Trovai dello stesso autore un altro libro, con la copertina molto simile e che si chiamava "Vent'anni dopo".
Non mi ricordo se lessi il secondo libro con lo stesso entusiasmo del primo e nemmeno ricordo bene quali sono le storie raccontate prima e quelle che venivano dopo, ma quello che mi colpì maggiormente fu il valore che io a dodici anni davo al tempo. Vent'anni per me erano tanti, erano una generazione, era come aprire una finestra sul futuro, e il futuro - a quell'età - è lontano, arriverà quando si sarà diventati grandi e il tempo non passa, e si aspetta con ansia di potersi mettere in gioco, sicuri che il mondo per noi sarà migliore di quello che vediamo intorno a noi, perché noi siamo di più. Noi siamo più istruiti, capiamo prima dei nostri genitori, siamo giovani e abbiamo la forza per fare quelle cose che i nostri eroi di carta riescono a fare con tanta normalità.
Poi improvvisamente il tempo comincia a correre e non ci si accorge che non siamo riusciti a fare tante cose, perché eravamo troppo piccoli, perché erano cose da grandi, perché non eravamo pronti o perché semplicemente non avevamo abbastanza soldi e nemmeno gli amici e la famiglia giusta per diventare protagonisti in un mondo che avevano solo sognato.
Oggi vent'anni però bastano per entrare in un'altra epoca.
Per parecchi anni ho lavorato lontano da casa, dove tornavo un paio di volte l'anno. All'arrivo in aeroporto solita stanchezza, fila al controllo passaporti, attesa del bagaglio, odori da far voltare lo stomaco, altra fila in dogana, baci, abbracci, parenti, tassisti abusivi, tutto come sempre. Poi una mattina arrivato all'aeroporto di Roma, saranno state le sei, era molto presto, c'era ancora poca gente, ma notai qualcosa che non riuscivo a percepire bene. Qualcosa di strano nell'aria, come un senso di indifferenza, anzi di alienazione. Tutti camminavano e parlavano. Da soli, cioè parlavano a un ingombrante telefonino, e camminavano in fretta, ignorando completamente chi gli stava accanto e -infervorati in discussioni che sembravano determinanti per tutto il genere umano - sembravano tutte “persone importanti”.
Senza che io ne avessi ancora avuta una minima percezione, si era creata una nuova élite, che si riconosceva da quel nuovo status
symbol.
Improvvisamente
ci eravamo messi a correre più veloci e le generazioni cominciarono
a succedersi a tempi sempre più brevi, a diventare più corte. Le invenzioni, le scoperte e le abitudini cominciarono a cambiare giorno dopo giorno.
I "Vent'anni dopo" di quando ero ragazzino io, erano diventati come venti secoli di vita di questi giorni.
I "Vent'anni dopo" di quando ero ragazzino io, erano diventati come venti secoli di vita di questi giorni.
Il
teatro, come il caminetto delle vecchie case di pochi anni fa, per
esempio, aveva sempre rappresentato la vita, raccontato, mantenuto
vivo il ricordo ed esaltato i sentimenti e i guitti spiegavano senza
dire quello che non poteva e non doveva essere raccontato e
tramandavano le tradizioni, le paure, la bellezza. Come i nonni che
raccontavano le favole e le loro storie di guerra ai nipoti.
Poi la gente non ha avuto più il tempo di ascoltare. In mezzo secolo prima abbiamo cominciato a correre e poi a volare trasformando completamente il nostro modo di
vedere le cose, di pensare, di apprezzare la bellezza, di perdere
tempo e di sforzarci a pensare. Non abbiamo più tempo per pensare con la nostra testa, abbiamo tutto sott'occhio, ci fanno vedere le cose, non serve più immaginarle, non serve nemmeno avere dubbi, perché subito ci presentano qualcosa che rafforza quello che abbiamo appena visto e spiega come non serva avere dubbi. Ormai bisogna saper credere. Ma con cautela e, meglio, se ci si affida a quello che conviene di più.
Stanchi
dallo stress – più che dalla fatica fisica – del lavoro e del
traffico, in casa non abbiamo più il caminetto, ma abbiamo un telecomando. Ci togliamo le scarpe e ci possiamo abbandonare a uno qualsiasi dei tanti programmi della
televisione dove - in mezzo a tanti accattivanti spot pubblicitari – sfilano belle donnine scollacciate che lasciano più vedere che pensare,
che lasciano parlare i soliti nomi che hanno una parola competente su qualsiasi argomento, che emettono suoni non sgradevoli ma
assolutamente inutili, attenti a non parlare di teorie, di principi sociali o morali o di argomenti reali e soluzioni concrete, ma assolutamente pronti a usare
tecniche di coinvolgimento del pubblico con una dialettica da attori
consumati.
Un reality o un salotto televisivo di oggi ha un taglio molto più veloce, acuto e avvincente di uno di quei vecchi, lenti,
noiosi monologhi dei primi teleromanzi trasmessi dalla televisione a un solo canale in bianco e nero, che provava a far conoscere a grandi masse di
pubblico i drammi, le commedie e le forse di un teatro della vita che è diventato ormai, troppo piccolo per uno
schermo tanto grande.
Non
voglio arrivare al chiacchiericcio, a quel parlare che confonde e fa
sembrare tutto negativo - tipico per un signore di mezza-età
inoltrata - anche se sto molto attento nel non cadere in quella deliziosa espressione:
“ai miei tempi!”, che ho tanto odiato sentir dire dai vecchi dei miei tempi. Però il senso critico ha il dovere di far
riflettere, di evitare di sentirsi costretti ad accettare tutto quello che
viene definito nuovo – a detta di tutti - come unico modo di vedere le
cose, unica alternativa, unica possibilità senza alternativa.
Pena:
essere additato come differente, come persona che si arrampica su principi morali superati, su valori immateriali, come una persona che
non vuol rendersi conto dell'evoluzione dei tempi e che, visto che non accetta con entusiasmo le nuove regole, si mette quasi spontaneamente a lato, esce dal campo e diventa facile oggetto di un
mobbing sociale giocoso, di una emarginazione tacita e condivisibile da tutti.
Condannato ad essere considerato inutilmente incompreso e incapace di comprendere.
Condannato ad essere considerato inutilmente incompreso e incapace di comprendere.
Temibile
e terribile sovversivo. Anzi no: complottista, è questa la parola inventata - mistificandone il significato - per definire chiunque abbia ancora voglia di una qualsiasi reazione a un “confortevolissimo appiattimento” a quello
che sapienti scelte di mercato stanno riuscendo ad imporre.
C'è poco da dire, sono stati e sono veramente bravi, sanno veramente riconoscere, nei gangli del nostro cervello, quello che a noi farebbe piacere pensare, quali idee, quali oggetti, quali desideri sono nascosti nelle nostre pigre menti, o meglio quali sono quelle sollecitazioni che non sono state ancora sollecitate.
Quali sono gli interessi che hanno ancora un potenziale da sfruttare, creando nel
nostro profondo io, altri bisogni che nemmeno immaginavamo di poter desiderare, magari per sentirci più partecipi, più uguali a un
modello di mondo che ci viene presentato, come se fosse vero, offrendoci
la sensazione di scoprire una realtà che ci era sfuggita.
Una realtà a colori e truccata. come qualcosa di verosimilmente bello e che ci viene propinata come verità.
È
il piacere della fiction, dove tutti i colori sono pastello, dove
tutti gli eroi sono belli, dove le donne si svegliano ogni mattina e
sono già impeccabilmente eleganti, truccate e in forma, dove gli
uomini non hanno né pancia, né mal-di-schiena e dove esiste anche
un terzo sesso che ha un suo ruolo chiaro e forte in una società normale, senza forzature, senza ricchi e senza poveri, una società che accetta il
piacere del diversamente più intelligente. E, tutto quello che non si vede, non esiste.
Divagazioni?
Certo
come dicevamo prima, certi discorsi, sembra di stare al bar!
Ma
forse no, forse ho semplicemente allargato un po' troppo il discorso,
il fatto è che a tutti ci piace sentirci parlare e ci crediamo di sapere molto più di quello che realmente conosciamo e poi, le parole altisonanti ci fanno sentire importanti. Lasciatemele godere per qualche riga, lasciatemi divagare, anche se sono sicuro che serve solo a me stesso.
Il pensiero dell'uomo ha un percorso lungo – se vogliamo stare alla storia scritta sui libri e quindi ufficiale – sette, otto, diecimila anni e in tutto questo tempo ha avuto una sua lenta ma progressiva “evoluzione” senza mai mettere in dubbio il significato del termine “evoluzione”, senza voler mai ricominciare da un punto qualsiasi senza tener conto, senza riconoscere, che è esistito un passato, una storia.
Il pensiero dell'uomo ha un percorso lungo – se vogliamo stare alla storia scritta sui libri e quindi ufficiale – sette, otto, diecimila anni e in tutto questo tempo ha avuto una sua lenta ma progressiva “evoluzione” senza mai mettere in dubbio il significato del termine “evoluzione”, senza voler mai ricominciare da un punto qualsiasi senza tener conto, senza riconoscere, che è esistito un passato, una storia.
Questa
prassi antica ha fatto sì che qualcosa, almeno l'essenziale, del
pensiero dell'Uomo sia rimasto nel retro-cranio dell'uomo che sarebbe nato domani,
ha permesso che sia rimasta la capacità di riconoscere una specie
dannosa da una specie innocua, ha permesso di orientarsi in base alle
stelle del cielo, ha permesso che un uomo spontaneamente fosse capace
di legare insieme qualche tronco d'albero per costruirsi un riparo.
Banalità-certo-però
con questi esempi primitivi cerco di dire che, fino a ieri per andare
da casa al lavoro, a piedi, a cavallo o in auto, nessuno aveva mai pensato di consultare un navigatore satellitare, da che parte andare o quale sia la strada più breve. Nessuno si
era mai preoccupato di avere troppo pochi amici virtuali, o di ricevere
pochi “like”, nessuno aveva mai guardato sul telefonino per sapere se fuori piove.
Però
ormai certi modi di fare non sembrano nemmeno più tanto stravaganti. Anzi chi non è assuefatto rischia di diventare un estraneo in una collettività, che non
chiede perché, ma che semplicemente ignora ed esclude.
Qui,
volevo arrivare.
Al
fatto che certi nostri comportamenti, certe nostre esigenze, certi
nostri “bisogni” fino ad un ieri, nemmeno tanto remoto, nessuno
avrebbe mai potuto pensare che fossero comportamenti leciti, normali,
che non fossero delle assurde stramberie inventate da chi avesse solo
voglia di giocare con una fantasia estremamente ricca.
Sarebbe
meglio avere “la botte piena e la moglie ubriaca”, dicevano "i vecchi dei miei tempi" però la botte
mi pare che sia piena di miseri e inutili bisogni che non possiamo nemmeno pagarci, mentre la moglie si è ubriacata, sì, ma dopo aver bevuto un po' da ogni botte che ha trovato sulla sua strada. Con
tutto il rispetto per la moglie della metafora.
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